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Immagine del redattoremaria zeccato

L’aggressività femminile: il volto oscuro di una identità negata.


“Non sopporto più la mia solitudine.. non riesco a trovare un uomo che mi ami …non ha senso la mia vita senza un marito e una famiglia tutta mia..”

“Sono sempre in ansia per i miei figli ...sono l’unica mia ragione di vita...” “

.. Mio marito mi ha lasciata per un’ altra donna ...non sono riuscita a renderlo felice ..ora la mia vita è finita”


Cominciano così molte richieste di aiuto, e spesso, nel corso della mia esperienza clinica, ho sentito pronunciare queste frasi da molte pazienti nel setting terapeutico, tutte donne convinte di non essere mai sufficientemente adeguate o addirittura di non valere nulla, perennemente alla ricerca di conferme, di un supporto affettivo e della propria identità. Al di là dei sintomi ansiogeni, depressivi o psicosomatici riportati, emerge una comune sensazione di impotenza, incapacità di azione e di reazione agli eventi della vita, accompagnata spesso da un profondo senso di colpa e di autoaccusa. In tutte, però, ho sempre ‘sentito’ una forza nascosta, una energia segreta, pronta ad esplodere in sintomi, ma anche ad essere convogliata come propellente per rimettersi al centro della propria vita e “diventare ciò che si è”. Mi torna in mente un saggio letto qualche anno fa, “L’aggressività femminile “in cui Marina Valcarenghi, una psicanalista di formazione junghiana ,definisce questa “energia” “aggressività” e ne fornisce una interessante quanto originale lettura. Ritengo che sia stata una delle mie letture più nutrienti, ancora oggi attuale e ricca di spunti di riflessione, ecco perchè la riscopro presentandone il contenuto essenziale.

La Valcarenghi parte dall’assunto che l’aggressività, nella sua accezione generale, designi una disposizione che orienta la conquista e la difesa di un proprio territorio fisico, psichico e sociale e guidi a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità. L’istinto aggressivo, in quanto pulsione, appartiene sia al genere femminile che a quello maschile. Purtroppo però, sostiene la Valcarenghi, l’aggressività umana è malata e oscilla tra due poli opposti, ma ugualmente distruttivi: da una parte l'incapacità di difendere il proprio territorio, dall’altra l'incapacità di riconoscere il territorio altrui. Nel caso in cui l’aggressività è malata in senso deficitario viene rimossa e comporta l ‘incapacità di difendere il proprio spazio, invece, quando eccede viene agita attraverso l’aggressione e comporta l’incapacità di riconoscere, rispettare e difendere lo spazio altrui. Secondo la Valcarenghi, sul polo deficitario si colloca il genere femminile su quello opposto il genere maschile. Infatti, dall’analisi di molti contesti socio-culturali emerge predominante l’immagine della donna quale creatura fragile e indifesa, vittima della prevaricante aggressività maschile., Indagando l'inconscio delle sue pazienti, soprattutto attraverso l’analisi dei sogni, rileva che un diffuso complesso di sofferenze e frustrazioni e la maggioraza dei sintomi riportati da donne sue pazienti ,quali ansia e depressione, rimandano ad un deficit aggressivo che, apparentemente, sembra faccia parte del “corredo” genetico di ogni donna . Quando questo deficit viene recuperato e viene ristabilita una giusta autodifesa i sintomi scompaiono. Sembra legittimo chiedersi: ma questa ipoaggressività se rappresenta un modo di essere naturale e geneticamente determinato perchè allora produce tanta sofferenza ?

Innanzitutto la Valcarenghi, da buona psicanalista junghiana, spiega la diffusione di questo modo di essere attribuibile e riscontrabile in tutto il genere femminile con l’intervento dell'inconscio collettivo che assorbe e conserva i valori e l'esperienza della collettività nel senso longitudinale e trasversale del tempo e li comunica attraverso i sintomi e i sogni. Infatti, dall'analisi dei racconti delle sue pazienti, sembra emerge, da una parte una diffusa difficoltà a riconoscere la propria identità e a lavorare per costruire e proteggere un proprio progetto di vita, dall'altra una esasperata reattività di fronte agli ostacoli, considerata comunque una reazione al senso di impotenza. In qualunque caso, sia che si comportino in modo ipoaggressivo che iperaggressivo, queste donne risultano sconfitte! Quando non riescono a difendersi, il loro territorio viene invaso; quando invece, esasperate dal senso di impotenza ed eccesso di autodifesa, aggrediscono lo spazio altrui, ingenerando ansia e tensioni con l'ambiente circostante. Oltretutto, entrambe queste reazioni scatenano uno stato di angoscia che produce sintomi spesso anche a livello psicosomatico. Un tale deficit aggressivo nel genere femminile non sarebbe mai stato valutato come una patologia, ma addirittura considerato una disposizione naturale del carattere femminile! La Vacarenghi, pertanto, sostiene che le donne non sarebbero prive di questo istinto, ma ne sarebbero state in qualche modo deprivate. Ma dal momento che nessun istinto può essere completamente cancellato, sarebbe più lecito supporre che sia stato represso e sospinto nell'inconscio e da lì continui a inviare segnali di disagio. L’aggressività femminile, dunque, avrebbe avuto libertà espressiva solo fino ad una certa fase dell’evoluzione del genere umano, poi sarebbe stata rimossa generando sintomi e disturbi. E’ possibile trovare tracce e testimonianza di questa rimozione sia nella tradizione leggendaria che nella storia. Nel mito del Mediterraneo, l’esistenza di alcune figure mitologiche, che corrispondono a verità collettive interiori spesso inconsce, offre la conferma di queste ipotesi: Medea che viene ripudiata da Giasone quando la sua aggressività e il suo sapere non gli sono più utili, Arianna, la principessa cretese, che viene ripudiata e abbandonata da Teseo quando ha svelato tutti segreti del labirinto.

La tradizione antropologica e mitologica rivela come molti riti delle religioni ufficiali dell'antichità mostrino culti riservati alle donne in cui veniva confinata l'espressione degli istinti aggressivi femminili, una devianza comunque controllata in tempi e spazi precisi. La perdita della coscienza razionale, attraverso il vino e l’uso di sostanze allucinogene che inducevano in uno stato alterato della coscienza , consentiva di entare in contatto con gli strati profondi del proprio inconscio e con la propria aggressività rimossa e repressa dandone ampio sfogo attraverso riti orgiastici e di sangue. Ne forniscono un esempio i riti delle Baccanti nell’antica Grecia descritti da Euripide. Queste donne tebane, dette anche Menadi (pazze), per un certo periodo dell'anno si radunavano sul monte Elia e di notte partecipavano a riti orgiastici vietati agli uomini e si davano ad eccessi di ogni genere,ma terminato il rito riprendevano la loro vita di sacrificio e sottomissione.

Nel periodo del Medioevo, soprattutto in Europa, con l'affermarsi del patriarcato e del potere spirituale e temporale della Chiesa, l’ aggressività femminile è stata agita principalmente come devianza sociale, come testimonia il fenomeno della stregoneria. Sui roghi di tutta l'Europa è stata bruciata una grossa parte della personalità femminile!

Ma cosa avrebbe cagionato la repressione e la rimozione di questo istinto? La Valcarenghi ipotizza che la rimozione dell'aggressività femminile sia stata generata da una necessità evolutiva di conservazione della specie. Molto probabilmente in questa fase erano diventate necessarie caratteristiche spiccatamente maschili, pertanto le donne dovevano essere allontanate dal potere e perchè questo accadesse era necessario un depotenziamento della loro aggressività. Una tale ipotesi lascia presupporre l’esistenza di una diversità di genere per quanto concerne l’assetto delle caratteristiche della personalità. La Vancarenghi sostiene che, sebbene entrambi i generi siano caratterizzati dalla stessa intensità pulsionale emotiva ed intellettiva, tuttavia la forma e la direzione dell'energia sono prevalentemente diverse: il genere maschile e quello femminile entrano in contatto e vivono l'esperienza con modalita di pensiero sentimento e sessualità prevalentementi differenti. E’ importante sottolineare che sia l'aspetto maschile che quello femminile del pensiero, del sentimento e della sessualità sono presenti entrambi in ciascun individuo, ovviamente con la prevalenza dell'aspetto tipico del genere di appartenenza. Sembra opportuno quindi soffermarsi un momento a valutare queste differenze nello specifico.

Il pensiero maschile o penetrativo rappresenta il Logos per eccellenza su cui si fonda la cultura occidentale. Basato essenzialmente sulla razionalità, è analitico, perché procede per separazione e differenziazione che gli consentono di fare ordine, è logico-deduttivo, perché si fonda sul principio di causa effetto . E’orientato più a costruire o a distruggere che a conservare e tende a concentrarsi sull' oggetto di indagine per sviluppare una conoscenza soprattutto razionale.

Il pensiero femminile o ricettivo è lento è profondo e si basa soprattutto sull' osservazione e la contemplazione. Non penetra l'oggetto, ma tende ad assorbirlo. E’ orientato soprattutto alla sintesi piuttosto che all'analisi del contesto e ne esamina i diversi aspetti mettendoli in reciproca relazione. Questa forma di conoscenza si muove attraverso la creazione di analogie e riesce ad arrivare a grandi livelli di profondità, avendo come dote essenziale la pazienza. Questo processo mentale tende ad accogliere e tenere insieme piuttosto che a separare, per far crescere e trasformare al suo interno e poi riportare alla luce.

Non di rado il pensiero femminile è stato confuso con l'intuizione, ma in realtà sono due processi diversi: il pensiero femminile si costituisce su un complesso di informazioni e dati esperienziali che sono consapevoli al soggetto, invece l'intuizione è un'ipotesi spontanea generata senza collegamento con i dati reali e, soprattutto, inconsapevole in quanto deriva dall'inconscio. Nel pensiero ricettivo rimane inconsapevole solo il passaggio dall’ insieme di informazioni raccolte dalla coscienza al risultato dell'elaborazione di questi . La Valcarenghi sostiene la complementarietà dei due modelli di pensiero che servono ad apportare contributi diversi, ugualmente necessari per prendere contatto in modo proficuo con l'esperienza. Il pensiero maschile è paragonabile alla luce del sole che colpisce in modo diretto e tagliente l'oggetto, lasciando l'ombra intorno, mentre, il pensiero femminile è paragonabile alla luce lunare che sfuma i contorni e irradia tutto intorno, cogliendo l'insieme delle cose.

La storia dell'Occidente ci mostra il naufragio dell'assoluta e indiscussa egemonia della forma di pensiero maschile che senza l'apporto compensativo del pensiero femminile è degenerato, avvelenato dalla smania di potere diventando ossessivo, dispotico e anche paranoico.

Il sentimento femminile, essenzialmente ricettivo. tende ad accogliere l'emozione e a rimanere centrato sulla percezione emotiva contemplando l'oggetto, lascendosene permeare. Il sentimento maschile, invece, sì dirige e agisce sull'oggetto esprimendosi attraverso l'impegno sociale e l ‘attaccamento al proprio lavoro, il desiderio di conoscenza e la dimensione progettuale. Il sentimento maschile non viene facilmente riconosciuto e, avvolto da una zona d'ombra, viene rimosso. Questa rimozione del sentimento lascia spazio alla vanità, al settarismo e anche alla violenza.Infatti, quando l'emozione non è condivisa ne riconosciuta arriva a qualunque cosa pur di affermarsi. La degenerazione del sentimento femminile,invece, porta all'incapacità di schierarsi, all'evitamento delle scelte e dei conflitti emotivi e alla esigenza di giustificare sempre gli altri.

Anche la sessualità viene vissuta con modalità diverse: la pulsione sessuale femminile si estrinseca nell'accogliere ,quella maschile nel penetrare. Sebbene il desiderio sessuale sia lo stesso, tuttavia per molti secoli, soprattutto nell'Occidente, l'istinto sessuale femminile è stato represso e rimosso insieme all'aggressività, provocando un blocco del desiderio associato a sensi sensi di colpa, generando frigidità , sintomi psicosomatici e comportamenti isterici. La repressione e la perversione dell’istinto sessuale hanno spostato la libido dalla sua direzione naturale verso comportamenti compensatori quali l'iperattività coatta, l'ansia di raggiungere il successo, il piacere dell'intrigo e della maldicenza. Come afferma la Valcarenghi “Vivere in pienezza la sessualità consegna definitivamente alla condizione di soggetti mentre vivere la sessualità in dipendenza dal desiderio altrui costringere la posizione di oggetti e quindi depriva di identità i desideri inevitabilmente di aggressività”(2).Infatti, il deficit aggressivo ha reso difficile non solo difendere, ma anche riconoscere i desideri propri da parte delle donne e ancor più difficile orientarsi nel mondo delle passioni. Il patrimonio passionale femminile e il desiderio di vivere in prima persona si sono andati così depauperando fino a trasformarsi nel desiderio di vivere in funzione degli altri, ingenerando problemi di dipendenza e attivando un vero e proprio circolo vizioso. Con l'affermazione del patriarcato , la rimozione dell'aggressività ha comportato anche la perdita dell'identità femminile e la chiusura verso il mondo delle relazioni personali. In particolare, l’aggressività rimossa si manifesta nelle donne attraverso sintomi maniacali, quali Invidia, maldicenza, prepotenza, arroganza e violenza soprattutto verbale; e sintomi depressivi quali vittimismo, masochismo, autosvalutazione, autolesionismo ,autocommiserazione. incapacità di problem solving ,caduta di autostima , perdita dell'umorismo e della creatività, incapacità di autodifesa e di autoaffermazione nella vita affettiva e in quella professionale

Questa repressione dell'istinto femminile pare sia stata compiuta senza una significativa opposizione da parte delle donne: esse si sono lasciate deprivare della loro libertà colludendo con gli uomini e accettando di diventare il sesso debole. Pertanto hanno introiettato una pretesa inferiorità intellettuale, spirituale e morale: tutta la storia delle donne è intessuta di pazienza, abnegazione e spirito di sacrificio, ma raramente di autodifesa. Ma perché la donna avrebbe accettato tanta oppressione e svilimento?

Come abbiamo visto, la Valcarenghi ipotizza che in una certa fase dell'evoluzione del genere umano la forma psichica e mentale più idonea a sopportare le responsabilità relative all'emergenza ambientale per la sopravvivenza della specie fosse quella maschile, di contro quella femminile avrebbe potuto costituire un ostacolo ai compiti evolutivi della specie. Pertanto sarebbe stata sacrificata per lasciare spazio ad una concentrazione di energia e di potere maschile a vantaggio di tutti. L'istinto di sopravvivenza, come dimostrato anche dall’etologia, avrebbe indotto gli uomini a costruire un'immagine della donna particolarmente negativa per poterla combatterla e annientarne il potere. Pertanto, la necessità dell'affermazione del primato maschile avrebbe comportato la neutralizzazione del potere femminile innanzitutto attivando la proiezione di caratteri minacciosi sulla personalità femminile .Dal canto loro le donne avrebbero consentito l'annientamento del loro potenziale aggressivo, interiorizzando questo processo come indispensabile sacrificio in nome della salvaguardia della specie. Si sarebbe quindi realizzato un vero e proprio processo adattivo alle realtà esterna e alle esigenze evolutive, generando una mutazione dell'istinto, un fenomeno radicale dunque, comprensibile solo con la pressione di una necessità conservativa. Purtroppo però, l'istinto dopo aver subito una mutazione così ingente, lo confermano gli studi della fisiologia, e dopo una lunga inattività, ha perso quasi completamente il suo potenziale. La necessità evolutiva e conservativa della specie, in realtà, prevedeva e necessitava solo di depotenziamento temporaneo dell'aggressività funzionale solo ad un allontanamento dalla gestione del potere. Una siffatta rimozione, però, ha comportato alle donne anche la perdita di altre parti importanti della propria identità e dei propri desideri, ingenerando al loro posto un enorme senso di colpa. Questo pesante interdetto non ha dato luogo solo all'impotenza, ma ha ingenerato anche una profonda identificazione nei desideri altrui e una soffocante dipendenza relazionale delle donne dagli uomini. La personalità femminile, dunque, è caratterizzata da un ingente senso di insicurezza e da una estrema fragilità tanto da sembrare una disposizione genetica.! Oggi, tuttavia, sebbene siano mutate le condizioni e le necessità evolutive che oscurarono l’identità femminile, questo istinto non trova ancora modo di risalire completamente alla coscienza. Certamente, a partire dal 1900, con l’inizio del declino del patriarcato, nella società occidentale sono state create le premesse contestuali per far riemergere l'identità collettiva femminile. Le donne hanno cominciato a prendere coscienza del loro stato ed è cominciata a riemergere lentamente l’ aggressività femminile. La donna non riesce, però, tuttora a rivalutare pienamente il proprio territorio psichico, affermando e riutilizzando le energie complementari fondamentali per un equilibrato e reale progresso del genere umano; continua ad abitare in un mondo ancora declinato al maschile e ad essere progressivamente cooptata da una cultura ancora fondamentalmente patriarcale. Infatti, l'integrazione sociale della donna sta venendo in modo poco incisivo e determinante, attraverso conformismo e adattamento a modelli di pensiero e azione decisamente maschili. In questo delicato momento storico, in particolare, il genere femminile sembra essere prigioniero in una doppia tenaglia: da una parte stanno riaffiorando alla coscienza l'aggressività e il desiderio repressi, cominciando ad esprimersi , dall’altra parte emerge un senso di colpa ancora più soffocante, originato sia dalla rinuncia ad esprimere questo patrimonio istintivo, ma contemporaneamente anche dalla sua stessa espressione che rompe un'abitudine millenaria. Questo spiegherebbe il comportamento contraddittorio di molte donne: studiano, ma non si laureano, si affermano professionalmente, ma restano imbrigliati nella rete della dipendenza affettiva o altre forme di dipendenza.

Dunque, come mai dopo tanti millenni di evoluzione esiste e perdura ancora l'aggressività femminile rimossa in un angolino dell'inconscio collettivo? La Valcarenghi sostiene che una coazione a ripetere, radicata nell'inconscio collettivo, comporta un prolungamento artificiale di uno status che appare addirittura naturale anche se non più necessario. La difficoltà di riappropriarsi del proprio mondo di desideri e di passioni è imputabile al divario temporale tra coscienza e inconscio: la coscienza trasforma la realtà in modo molto più veloce dell'inconscio. Pertanto, in altri termini, le donne riconoscono solo a livello razionale il proprio ricco mondo interiore, ma poi questo pensiero si scontra con un'abitudine millenaria di insicurezza e fragilità che viene dall'inconscio e genera angoscia, frustrazione e senso di colpa. In particolare il senso di colpa ha origine dalla mancanza di rispetto verso la propria identità, nel non riconoscersi e riconoscere i propri desideri ed è proprio questa consapevolezza ad indurre dei sintomi che in parte sono anche auto punitivi.

La persistenza del modello patriarcale ha ingenerato gravi conseguenze non solo sulla aggressività femminile, ma anche su quella maschile e soprattutto sulle dinamiche relazionali di genere. Infatti, l'energia aggressiva necessaria per stabilizzare il potere maschile, innanzitutto, ha generato dei meccanismi deliranti di potere. La crisi del sistema patriarcale poi ha creato disorientamento anche nell'inconscio collettivo maschile esasperando maggiormente l'aggressività, invece di attenuarla. Proprio a questa esasperazione prolungata dell’istinto aggressivo maschile la Valcarenghi attribuisce la responsabilità dei crudeli fenomeni di violenza e sopraffazione ai danni delle donne. Come sostiene la Valcarenghi, è arrivato il tempo di restituire riconoscimento all'autorità, all'intelligenza e all'”energia aggressiva” della donna; è arrivato il tempo in cui le caratteristiche precipue femminili come la lentezza che tiene conto della complessità ,la disposizione a costruire analogie e a prevedere esiti lungimiranti, la capacità relazionale e il forte interessamento per la natura contribuiscano a proseguire il lavoro di costruzione di un'umanità degna di questo nome.

Credo anche io che l’unica strada percorribile per affrontare il disagio del singolo individuo e dell’intera società possa essere quella di tenere viva la diversità di genere , accettarne la complementarietà delle competenze e delle risorse facendo riemergere l'aggressività femminile repressa e riscoprire un altro modo di costruire che comprende anche “il conservare” per integrare gli opposti in un equilibrio armonico, vessillo di una evoluzione autentica.

1) Marina Valcarenghi: “L’aggressività femminile”, la Feltrinelli,2003.

2) Ibidem, p.34




Dott.ssa Maria Zeccato

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